Di che materia sono
fatti i sogni? Non ha una risposta chiara, ma sa che è qualcosa di impalpabile,
come i ricordi del suo passato. Quando dorme gli sembra quasi di poterli
afferrare, ma quando si sveglia sono di nuovo diventati indistinti come fossero
avvolti dalla nebbia e destinati a svanire quando la nebbia si dissipa al primo
sole. Per anni non si è posto domande sulla sua vita, sul suo passato, sulle
cose che gli facevano fare, tutto sembrava semplicemente giusto e naturale, ma
ora quelle domande sono arrivate a tormentarlo con l’irruenza di un fiume in
piena ed improvvisamente nulla è sembrato più così naturale e così giusto. Ora
prova rimorsi e sensi di colpa e deve sapere chi è, se c’è qualcosa di più di
una fredda macchina di morte dietro la fredda maschera del Soldato d’Inverno.
Non importa quale
sarà il prezzo da pagare, deve sapere la verità, deve sapere quanto è
responsabile.
DOSSIER
SOLDATO D’INVERNO
EPILOGO DUE
UN UOMO NON UN SOLDATO
di
Carlo Monni & Carmelo Mobilia
Brighton Beach, Brooklyn, New York.
L’ultima volta che
questi due uomini avevano collaborato era il 2 maggio del ’45. Nelle loro identità
civili Steve Rogers e Bucky Barnes erano stati mandati in incognito in un’isola
del Canale della Manica per impedire il furto di un aereo militare
radiocomandato da una base militare alleata. Anche oggi come allora, anche se
era passata parecchia acqua sotto i ponti, erano di nuovo insieme e si
preparavano ad entrare furtivamente dentro questa enorme villa sulla spiaggia
che era stata il luogo da dove un potente boss mafioso russo dirigeva i suoi
affari, prima che i proiettili del Punitore ne troncassero la vita, e che ora
era divenuta di proprietà di un boss della finanza e dell’industria, anch’egli
russo. Anche un terzo uomo era passato di lì, sia pure per breve tempo: Nikolai
Aleksandrevich Zakharov, generale fuggiasco dell’Esercito Russo, ospite del
boss della Mafia Russa chiamato Ivan il Terribile quando questi era ancora
proprietario della villa prima di cederla a Aleksandr Lukin in circostanze non
del tutto chiare, ed era sempre in questa villa che Sharon Carter e Jack Monroe
si erano recati in cerca di indizi, poco prima della loro misteriosa scomparsa.
Steve era anche
totalmente consapevole del fatto che non sarebbe bastato un paio di occhiali ad
impedire ad Aleksandr Lukin di riconoscerlo come l’uomo che aveva conosciuto
col nome di Nathan Hale non molto tempo
prima a Montecarlo[1]
e quindi un approccio diretto era sconsigliabile almeno per il momento. Si
voltò verso il suo compagno e cercò di non mostrare la preoccupazione che in
realtà provava.
Aveva elaborato un
piano ed insieme al suo compagno d’avventure si trovava in una postazione
nascosta davanti a quella villa. Aveva atteso pazientemente che Lukin uscisse
per andare al lavoro e si era assicurato che anche i domestici fossero fuori.
La fortuna gli aveva arriso perché doveva essere il loro giorno libero.
<Ok Soldato, è
il momento. Io mi occupo del lato nord, tu di quello sud. Mi raccomando,
nell’eventualità trovassi delle guardie all’interno non devi, ripeto NON devi
assolutamente eliminarle. Non sei autorizzato a nessun uso di forza letale,
chiaro?>
<Si signore.
> rispose Bucky , con voce fredda. La sua amnesia gli impediva di ricordare
i suoi precedenti al fianco dell’ex Capitan America, tuttavia dentro di se
trovava confortevole e stranamente familiare prendere ordini da lui. In breve i
due si divisero e andarono verso il proprio obiettivo. Inguainato nella sua
tuta da supersoldato, Steve non ci mise molto a saltare sul muro di cinta. Gli
strumenti forniti da Amadeus Cho, nuovo acquisto della scuderia di Fury,
disabilitarono ogni possibile sistema d’allarme e fecero sì che le eventuali
telecamere nascoste riprendessero solo il solito panorama senza dar conto della
sua presenza. Steve non era sicuro di come ciò fosse possibile e non gli
interessava in fondo: quello che era importante era che la cosa funzionasse.
Neanche mettere a
dormire i cani gli portò via troppo tempo, meraviglie della tecnologia moderna.
In pochi istanti Steve fu davanti al
portone e poté mettere a frutto le sue
abilità di scassinatore: la serratura cedette facilmente e lui poté entrare
consapevole che le eventuali telecamere interne avrebbero ripreso solo la casa
vuota. La cosa lo mise un po’ a disagio: dopo tutti gli anni passati dal suo
risveglio non si era ancora abituato a meraviglie che ai suoi tempi erano
riservate alle riviste di fantascienza.
Anche Bucky,
muovendosi con la medesima abilità e destrezza, entrò nella villa, ma forzando
una finestra. Sebbene avesse passato interi decenni chiuso dentro un
crio-contenitore, azioni come questa gli venivano naturali come respirare.
Erano l’unica parte della sua vita che riusciva a ricordare. In breve, i due si
misero alla ricerca del più minimo indizio relativo ad un eventuale passaggio
di Sharon e Jack. Steve doveva riconoscere che Fury ci aveva visto giusto nel
volergli affiancare Bucky; in due perlustrarono l’enorme villa in meno tempo di
quanto ce ne sarebbe voluto se fosse venuto da solo, tuttavia, nonostante i
loro meticolosi sforzi, la perquisizione accurata non diede frutti. S’incontrarono nel soggiorno.
<Niente?>
<Nulla,
comandante. La villa è pulita.>
<Già, troppo
pulita. O questo Lukin non c’entra davvero, oppure è molto, molto bravo.>
Steve rifletté su
quanto sapeva su di lui: sembrava del tutto estraneo sia ai traffici di Ivan
che alle contorte manovre di Zakharov, apparentemente non era nulla più che un
comune oligarca russo dalla ricchezza sfacciata ma tutti e tre erano russi ed
erano stati nell’Esercito e forse avevano legami con i servizi segreti russi.
La possibilità di un collegamento, per quanto labile, non poteva essere
trascurata.
Mentre lui
rimuginava, Bucky andò verso il centro della stanza.
<Cos’hai
visto?> gli domandò Steve.
<Era ... era
qui, seduto in quella poltrona, quando gli ho sparato. Zakharov, intendo. Mi è
stato ordinato di farlo e io gli ho sparato, proprio da questo punto. E c’èra
un altro uomo con lui che...> si portò istantaneamente una mano alla tempia,
come se avesse avvertito una fitta. Steve era presente l’ultima volta che aveva
provato a farlo, ed in quell’occasione il ragazzo ebbe una crisi. Non voleva
che la cosa si ripetesse.
<Calma soldato.
Riposo. Non c’è bisogno che ti sforzi di ricordare. Vedrai che col tempo
riuscirai a mettere a fuoco tutto.> Questo confermava i loro sospetti: Zakharov era stato di nuovo ospite della
villa dopo che Natasha l’aveva incontrato, e qualcuno lo aveva fatto eliminare
proprio lì, dunque chiunque fosse l’uomo visto dalla Vedova Nera non era il
vero Zakharov; qualcuno si stava spacciando per lui. Ma chi? E chi aveva
impartito l’ordine al soldato d’inverno di eliminarlo? Uno degli uomini di Ivan
il Terribile? Ed era successo prima o dopo che Lukin era subentrato nella villa?
Tanti misteri su cui bisogna far luce. Comunque, restare lì era ormai inutile:
del falso Zakharov non c’era più traccia e nemmeno di un suo ritorno, e Steve
dubitava Jack e Sharon potessero essere stati catturati proprio lì.
Naturalmente questo non escludeva che fossero venuti e che Lukin ne sapesse
qualcosa. Sarebbe stato il caso di chiederglielo di persona.
<Vieni, usciamo
di qui. La missione è conclusa.> disse Steve e, silenziosi com’erano
entrati, i due supersoldati uscirono dalla villa senza lasciare alcuna traccia
del loro passaggio.
Sede della Kronas Inc. Manhattan.
Aleksandr Lukin,
Presidente della Kronas Inc, una delle più importanti multinazionali russe,
rientrò nel suo ufficio dopo un’estenuante riunione riguardante la sua più
recente acquisizione. Tutto quel chiacchierare finanziario lo annoiava: degli
ultimi dettagli tecnici si sarebbero occupati i suoi legali e funzionari
finanziari e magari si sarebbero pure divertiti… loro.
Si era appena
seduto sulla sua comoda poltrona executive in pelle nera che sentì qualcosa
vicino alla sua tempia destra ed una voce di donna dire in Russo:
<Non muoverti
Aleksandr Vassilievich o potrebbe essere l’ultimo gesto della tua vita.>
Dopo un’iniziale
sorpresa, Lukin sembrò rilassarsi ed abbozzò perfino un sorriso.
<Tenente
Belova…> disse nella stessa lingua, cercando di mostrarsi calmo <…la
migliore allieva della Stanza Rossa… dopo Natalia Alianovna[2]
naturalmente. Cosa fai qui? Lavori sempre per il G.R.U.[3]
anche dopo la caduta del tuo mentore Stalyenko?>
La sua
interlocutrice si mosse mettendosi davanti alla scrivania e rivelandosi come
una giovane donna bionda, dimostrava a stento vent’anni e l’aspetto da
ragazzina era controbilanciato da uno sguardo duro e due occhi di ghiaccio dal
colore blu intenso. Indossava una tuta aderente nera che le lasciava scoperto
l’ombelico e le disegnava perfettamente ogni curva del suo corpo snello in un
modo che avrebbe fatto bollire il sangue di un uomo ben più morigerato di
quanto Lukin fosse. In vita indossava una cintura dorata ed ai polsi aveva
degli elaborati bracciali anch’essi dorati. Su ogni bracciale c’erano delle
bocchette da una delle quali sarebbe uscito un filo sottilissimo ma più
resistente dell’acciaio e dall’altra sarebbe stato spruzzato un veleno
micidiale che a seconda dell’intensità avrebbe potuto stordire o uccidere la
vittima.
Il braccio destro
di Yelena Belova era puntato dritto in faccia a Lukin e per quanto ne sapeva
lui l’intensità del veleno era regolata su “letale”. Ciò nonostante si sforzò
di mantenersi calmo.
<Non hai paura,
generale?> gli chiese la ragazza sottolineando intenzionalmente il vecchio
grado militare dell’altro.
<Perché dovrei averne?>
replicò Lukin <Tu sei la Vedova Nera, la più letale assassina dei servizi
segreti russi, se mi volessi uccidere io o chiunque altro non saremmo in grado
di impedirtelo… e se davvero volessi uccidermi sarei già morto, quindi non è
quello che vuoi. Cosa cerchi, allora, da
questo tuo povero compatriota?>
La Giovane Vedova
Nera fece una smorfia che si mutò in un sorriso, un evento raro in quel bel
viso di solito perennemente imbronciato.
<Tu povero non
lo sarai mai Aleksandr Vassilievich.> replicò.
<Non essere così
formale puoi chiamarmi Alek. Di solito non è un privilegio che concedo
facilmente ma per te faccio volentieri un’eccezione…. Yelena.>
Il viso di Yelena
riprese il solito broncio mentre replicava brusca:
<Voglio
informazioni, generale,e tu mi dirai tutto quel che sai. >
Estrasse dalla
cintura una foto e la porse a Lukin che la studiò interessato: ritraeva una
giovane donna bionda con dei profondi occhi azzurri e l’espressione dura e
triste al tempo stesso come di chi ne ha passate troppe.
<Bella
donna.> commentò Lukin con un sorriso mefistofelico <Ti somiglia un po’
sai? Ma è troppo giovane per essere tua madre ... no, non è così vecchia, ma
potrebbe essere la tua sorella maggiore.>
Gli occhi di Yelena
sembrarono mandare lampi e le sue labbra sembrarono tremare mentre strappava di
mano la foto a Lukin.
<Basta con gli
scherzi.> ribatté <L’hai vista? È venuta qui o alla tua villa a farti
domande?>
Lukin scosse il
capo e rispose:
<No: se avessi
incontrato una donna così bella me lo ricorderei sicuramente. Non è mai venuta
né qui né alla villa. Ora dimmi: perché la cerchi e perché collabori con lo
S.H.I.E.L.D.?>
Ora fu la volta
della Giovane Vedova Nera di restare a bocca aperta dalla sorpresa.
<Come fai a…>
<Posso sembrarti
un imbolsito uomo d’affari adesso, ma non dimenticarti chi ero, tenente. Ho
avuto qualche esperienza di intelligence.
Posso non aver mai incontrato questa donna, ma ciò non significa che non
sappia chi è: Sharon Carter, è stata per un breve periodo Direttore dello
S.H.I.E.L.D. mentre Nick Fury era dato per morto. La sua foto è anche apparsa
sui giornali, il che non è bene per un agente segreto, non credi?>
Nessuna risposta.
<Se tu la
cerchi, vuol dire che è scomparsa.> insistette Lukin <Se è così, la cosa
deve essere seria. Perché avrebbe dovuto cercarmi? Di cosa avrebbe dovuto
sperare che fossi al corrente?>
Yelena rimase
ancora in silenzio, poi sembrò prendere una decisione e disse una sola parola:
<Zakharov.>
Per la prima volta
l’aplomb di Lukin sembrò vacillare. Per poco il bicchiere di whisky che
impugnava non gli sfuggì dalle mani ed alcune gocce finirono sulla preziosa
moquette.
<Zakharov…>
ripeté pensoso <Perché cercate quel… quel macellaio?>
<Dopo il
disastro di Sudhek[4] si è
rifugiato qui in America, ma ne abbiamo perso le tracce. Sappiamo che aveva
contatti con Ivan il Terribile e Ivan era il precedente proprietario della tua
villa. Zakharov è stato suo ospite lì.>
<E voi pensavate
che potesse esserci tornato ed io l’avessi aiutato? Capisco. Spiacente di
deludervi, ma non vedo quel figlio di puttana da anni ormai e me ne sono tenuto
lontano ben volentieri. Quell’uomo era pazzo. Non mi sorprende sapere che
avesse contatti con Ivan il Terribile, l’avrà conosciuto quando lui era nel
KGB.>
<Perché parli di
Zakharov al passato?> gli chiese, dubbiosa, Yelena <Sai qualcosa che
dovrei sapere anch’io?>
Lukin si riempì un
altro bicchiere, stavolta di vodka, e lo vuotò tutto d’un fiato
<Niente
affatto.> ribadì con forza <Non vedo Zakharov da anni. Fossi in te,
starei lontano da lui Vedova… quell’uomo era… è pericoloso anche per una come
te.>
<Me lo
ricorderò… Ora scusami generale, ma ho da fare.>
<Aspetta… siamo
due russi soli nella tentacolare metropoli, capitale del capitalismo americano.
Io dico che dovremmo essere solidali. Che ne dici di vederci stasera a
cena?>
Yelena rimase
silenziosa per un po’, poi disse:
<Perché no?
Stasera alle 8 qui sotto>
E senza dire altro,
la vedova Nera aprì la finestra e si gettò nel vuoto senza badare al fatto che
era il trentesimo piano.
Lukin andò alla
scrivania e premette un pulsante, meno di due minuti dopo da una porta
mimetizzata nella parete entrò il suo braccio destro Lev Ilich Kuryakin, detto
Leon.
<Che
succede?> chiese, andando dritto al punto.
<La Belova è
stata qui.> rispose Lukin.
<Cosa? Come ha
fatto?>
Lukin si strinse
nelle spalle come se il fatto che la ragazza avesse facilmente superato i
sistemi di sicurezza dell’edificio e fosse giunta vicinissima a poterlo
uccidere non lo turbasse più di tanto.
<Ha
importanza?> ribatté.
<Dovrebbe
averne. Abbiamo il miglior sistema di sicurezza che i soldi possano comprare e
lei l’ha superato senza sforzo. Dovresti
essere preoccupato. Io lo sono.>
<Dubito che
esistano sistemi di sicurezza davvero a prova degli allievi della Stanza Rossa.
Tu lo credi?>
<No, forse, no.
Ma, a parte questo, perché era qui?
Forse sa che…>
<Non sa
niente.> replicò Lukin con sicurezza <Non immagina che sappiamo della
squadra segreta di cui fa parte e non sa nemmeno dei nostri piani. È venuta qui
perché sapeva che ho acquistato la mia villa da Ivan il Terribile e Ivan ha
aiutato Zakharov ad espatriare negli Stati Uniti. Sperava che Sharon Carter
fosse venuta a farmi domande. Pare sia sparita mentre stava cercando Zakharov.>
<Possono
cercarlo quanto vogliono, troveranno solo un cadavere.> Leon si interruppe
perplesso <Ma con Zakharov morto, chi l’ha fatta sparire e perché?>
<È esattamente
quello che voglio scoprire. Non mi piace che qualcuno possa sospettare che sia
coinvolto nella sparizione di un agente dello S.H.I.E.L.D. … specie se non lo
sono. Può rovinarmi gli affari. Abbiamo sempre quei contatti nella Organizatsiya[5]
mi auguro .>
<Ovviamente.>
<Bene. Usali se
necessario. Voglio sapere tutto di questa storia e voglio le risposte il prima
possibile.>
<E poi?>
<E poi
sistemeremo la faccenda nel modo migliore … per noi.>
Un luogo segreto.[6]
Sharon Carter sbatté
gli occhi cercando di riprendere piena coscienza. Non sapeva quanto era stata
svenuta, ma al momento non le importava: le bruciava troppo essersi fatta
sorprendere come una novellina. Non era nemmeno riuscita ad avvicinarsi alla
villa dove Natasha Romanoff aveva incontrato il generale Zakharov: qualcosa
l’aveva colpita alla base del collo e da allora non ricordava più nulla.
Bell’agente segreto che era , non era più neanche all’’altezza di insegnare
alle reclute. Le avevano iniettato qualche droga, forse un derivato del curaro,
i muscoli erano rimasti paralizzati ed ora li sentiva formicolare tutti. Le ci
volle qualche istante per comprender di essere in una cella, un cubicolo di
cemento per essere esatti, incatenata ad una parete come in un brutto film
d’avventura. Era sola. Che fine aveva fatto Jack? Avevano preso anche lui? Lo
tenevano da un’altra parte? Sentì il rumore di una porta che si apriva e
l’oscurità fu rotta da una luce brillante che la costrinse a sbattere le
palpebre più volte.
Quando mise a fuoco
la vista davanti a lei c’era un uomo, se tale poteva chiamarsi. A prima vista
poteva sembrare semplicemente grasso,ma guardandolo meglio si vedeva che sotto
quella montagna di carne c’era una forza incrollabile. A Sharon ricordò la sola
volta che aveva incontrato di persona Wilson Fisk, altrimenti noto come
Kingpin.[7]
<Sai chi
sono.> disse l’uomo. Non era una domanda ma piuttosto una constatazione.
<Nikolai
Aleksandrevich Zakharov, già generale dell’Esercito Russo, attualmente in fuga,
ricercato dal suo governo per attentato contro lo Stato.>
<Non è il mio
governo: sono solo un branco di pappemolli senza spina dorsale e senza
orgoglio.>
<ai tempi del
compagno Breznev era molto meglio, immagino.>
L’uomo di nome
Zakharov non mutò espressione mentre la colpiva con uno manrovescio. Non
sembrava né arrabbiato, né infastidito, il suo viso era impassibile. L’Uomo di
Pietra lo chiamavano e Sharon cominciava a capire perché.
Ripensò ancora a
Kingpin. Lui e Zakharov si somigliavano molto a dire il vero, potevano sembrare
quasi fratelli, ma c’era un particolare che li differenziava sensibilmente:
negli occhi e nell’espressione di Zakharov c’era una sorta di vuoto, l’assenza
di ogni emozione umana. Sharon capiva come ipotese incutere timore, perfino lei
era spaventata, anche se sperava di non dimostrarlo.
<Lei non può
capire, agente Carter…> disse col suo solito tono monocorde < Si, so chi
è lei. Purtroppo per lei, è piuttosto
nota. Ci siamo anche quasi incontrati anni fa: ha interferito con una mia
operazione nelle montagne dell’Afghanistan.>
Sharon spalancò gli
occhi.
<Lei… era
lì?>
<Non
ufficialmente, ovviamente, e nemmeno lei del resto: all’epoca si diceva che
fosse morta, ma… come dite voi americani… era una notizia esagerata.>
<Anche di lei
dicono che sia morto.>
Zakharov sollevò
appena un sopracciglio.
<Davvero?
Interessante. In ogni caso non ti permetterò di interferire coi miei piani
ancora una volta, donna. Credevi di potermi prendere di sorpresa, ma non era
così facile vero? Sapevo che quella traditrice della Romanova avrebbe riferito
a Fury di avermi incontrato qui a New York Mi aspettavo un intervento dello
S.H.I.E.L.D. o della Sicurezza Interna americana. Una volta individuati te ed
il tuo compagno è stato facile intrappolarvi.>
Quindi Jack era lì,
prigioniero anche lui. Buon a sapersi. Non che saperlo cambiasse la sua
situazione.
<Che intenzioni
hai, Zakharov?>
<Una buona
domanda, in effetti. Il mio paese… l’Unione Sovietica… era una potenza. La sua
decadenza è insopportabile, piuttosto che vederla ridotta com’è ora, nelle mani
i uomini meschini che inseguono solo i loro sogni di potere preferisco vederla
bruciare.>
Che voleva dire?
Una sottile vena di panico percorse tutta la schiena di Sharon.
<Qualunque cosa
tu voglia fare, Zakharov,. Non funzionerà.>
<Vedremo. Nel
frattempo, agente Carter mi dirai cosa sa dei miei piani lo S.H.I.E.L.D.>
<Se mi conosci
davvero, Zakharov, dovresti sapere che la tortura non servirà a nulla con
me.>
Il labbro superiore
di Zakharov si mosse di appena guache millimetro, poi lui disse:
<Davvero? Sarà
comunque un esperimento interessante scoprire quanto è alta la sua soglia del
dolore, non crede agente Carter?>
Sharon non trovò
nulla da replicare.
Quella sera, al “Gordon Ramsay at the London”, New York.
<Sono contento
che hanno riaperto questo posto. Lo sapevi che qualche mese fa qui davanti
hanno ucciso un uomo? Pareva fosse stato quel Vendicatore, Occhio di Falco
...> [8]
<Sai che se tenti
qualche trucchetto strano, Lukin, tu potresti essere il secondo a lasciarci le
penne, qui?>
<Mia cara, ti
prego ... che battuta scontata. A questo punto, scommetto che sotto la lunga
gonna di quel bel vestito hai una giarrettiera con fondina dove tieni una 38,
ho indovinato?>
<Come hai
detto tu oggi, sono la Vedova Nera ... non ho bisogno di una pistola per
eliminarti.> disse Yelena con un sorriso malizioso.
<Come sei
rigida, sempre sulla difensiva... dovresti cercare di essere più carina con me
sai? Lo zio Alek ti ha portato un regalino che gradirai moltissimo ...>
<Prego?>
domandò lei, stupita.
<Quest’oggi
sei venuta da me a chiedere di Zakharov... con dei modi davvero bruschi, a dire
il vero. La prossima volta vorrei che tu venissi da me entrando dalla porta
principale ... e che mi vedessi come un amico, Yelena. Te l’ho detto, siamo
stranieri in terra straniera... dobbiamo sostenerci a vicenda.>
<Dove vuoi
arrivare?> chiese ancora, intuendo dove l’uomo volesse andare a parare.
Lukin tirò fuori
dalla tasca interna della giacca una busta,
l’appoggiò sul tavolo e con il dito la fece scorrere verso la
donna. Yelena la prese e vi guardò
all’interno e rimase sorpresa dal contenuto.
<Come ... le
hai ottenute?>
<Sono uomo
molto ricco... e ho ancora tanti amici nei servizi segreti… e non solo.>
<E perché mi
vorresti fare questo regalo? Cosa ti aspetti in cambio?>
<In cambio?
Niente ... te l’ho detto, vorrei solo che ti fidassi di me, tutto qui. Inoltre, non voglio che nessun altro d’ora in
poi mi possa collegare, anche lontanamente, a gente come lui o come il tuo ex
mentore Stalyenko, solo a causa del mio passato. Fa parte di un’altra vita.
Oggi sono solo un onesto uomo d’affari, Yelena. >
<E da oggi
sono in debito con te, dico bene?>
Lukin prese il
menù.
<Vogliamo
ordinare? Ti consiglio il pesce ...>
Coney Island.
Il giovane seduto
su una panchina guardava il Luna Park che aveva conosciuto tempi migliori. Sul
suo viso un’espressione perplessa: chi era lui e perché questo posto gli era
familiare, ma non com’era adesso, bensì come doveva essere quando era pieno di
vita e di attrazioni sbalorditive per un bambino? Il suo sguardo si fissò sulle
montagne russe e gli parve di vedere un uomo alto (ma non sono tutti alti gli
adulti agli occhi di un bambino?) che teneva per mano un maschietto ed una
femminuccia. L’uomo è in divisa dell’Esercito Americano, di quelle in uso negli
anni 30 (e lui come fa a saperlo?), è in licenza, ha poco tempo da passare coi
figli e vuole che si divertano. Sente la sua voce: “Jimmy, Becky, su… è ora di
tornare a casa.”.
<Jimmy…
James> sussurra quei nomi con voce incerta e la cosa lo sconcerta: lui non ha
mai avuto incertezze, ha sempre saputo cosa doveva fare e lo ha fatto senza mai
metterlo in discussione. Non ha mai pensato a chi fosse o a quale fosse il suo
passato. Non ne sentiva il bisogno. Nelle ultime settimane tutto è cambiato,
certe domande si sono affacciate nella sua mente e si è perfino accorto che
adesso pensa in Inglese e se lo parla emerge un chiaro accento dell’Indiana, ma
che ne sa lui dell’accento dell’Indiana? Aveva dato per scontato di essere
Russo, ma ora sa di essere Americano. Quel tizio biondo, Steve, lo ha chiamato
Bucky… James Buchanan Barnes. Quel nome gli viene alle labbra facilmente con
familiarità. Il suo vero nome? Chi è veramente? Sospirando malinconicamente, si
alzò dalla panchina e s’incamminò lungo il viale. Un giorno lo saprò, disse a
se stesso.
Lee Academy. Connecticut.
<… e nella
prossima lezione parleremo del ruolo di Picasso nell’arte moderna. Studiate le pagine da…>
Il professor Steve
Rogers si rese conto che le sue ultime parole non erano ascoltate da nessuno e
scosse la testa con un mezzo sorriso. Con l’imminenza della chiusura estiva, il
pensiero delle vacanze occupava la maggior parte dei pensieri degli allievi.
Presto la scuola si sarebbe svuotata: niente più voci o risate, il parco
sarebbe stato vuoto. Un po’ la cosa gli metteva tristezza: insegnare gli
piaceva sul serio, avere a che fare con quei ragazzi e ragazze era un davvero
più gratificante e talvolta più complicato ed arduo dello sventare i paini del
Teschio Rosso . Non che gli sarebbero mancate cose da fare durante l’estate a
cominciare dal ritrovare Sharon. Finora tutte le ricerche erano state vane, ma
prima o poi qualcosa doveva saltar fuori, se lo sentiva.
Era appena uscito
dall’edificio principale e stava percorrendo il vialetto che portava al parcheggio
degli insegnanti quando vide un giovanotto dai capelli castani con un ciuffo
ribelle sulla fronte. Indossava un giubbotto di pelle nera, T Shirt, ed un paio
di jeans. Sembrava appena un po’ troppo vecchio per essere un allievo ed aveva
un’aria leggermente spaesata come se trovarsi in un posto del genere fosse
un’esperienza nuova per lui. Steve lo riconobbe immediatamente e gli si
avvicinò sorridendo, ma con un velo di preoccupazione.
<Buck… cosa fai
qui?>
<Il tuo amico
Fury mi ha mandato a chiamarti. Pare ci siano novità sulla scomparsa della tua
amica.>
<Fury avrebbe
potuto telefonare.> replicò Steve un po’ seccato. Non era persuaso che Bucky
fosse già pronto ad affrontare il mondo esterno, ma a quanto pare, Nick Fury
non era della stessa idea.
<Oh ma a me fa
piacere uscire, vedere gente...> disse Bucky, poi si soffermò a guardare la
targa vicino al portone d’ingresso.
<Lee High
School… non conoscevo un posto con un nome simile una volta?>
Steve sapeva che si
riferiva a Camp Lehigh, il campo d’addestramento dell’Esercito in Virginia dove
Bucky aveva passato la maggior parte della sua vita prima che arrivasse la
guerra. I ricordi stavano tornando e questa era una cosa buona. Non passava
giorno in cui Steve non desiderasse
possedere un modo più semplice e rapido per restituire i ricordi e la psiche di
Bucky, invece di questo processo lento e doloroso, ma come si dice in certi
casi, solo il tempo può guarire certe ferite.
<Era il vecchio
nome di questo posto prima che lo ristrutturassero e ampliassero i corsi fino a
comprendere anche le elementari.> Spiegò Steve <Hanno lasciato la vecchia
targa per ricordo. Il posto di cui parli si chiama in modo un po’ diverso. Lo
conosco, si trova molto più a sud, potrei accompagnatrici uno di questi giorni,
se lo vuoi.>
<Si… forse.>
rispose l’altro con aria un po’ dubbiosa.
<Ora dimmi che
novità ci sono.>
<Non ne so
molto.> rispose Bucky a bassa voce <Ti dirà tutto Fury, immagino.>
<Andiamo allora,
non perdiamo tempo.>
Un complesso Militare Sovietico, Località segreta. Ottobre 1945
Il Maggior-Generale Vasily Karpov era chiaramente deluso.
<Ne è assolutamente sicuro Compagno professore?> chiese.
<Assolutamente si, Compagno Generale: abbiamo eseguito tutti i test possibili ed immaginabili ed alcuni li abbiamo inventati noi, non c’è modo di sbagliare: nel sangue del prigioniero, in tutto il suo corpo non c’è alcuna traccia del cosiddetto siero del supersoldato o di qualunque altra sostanza estranea e per come la vedo io, non c’è mai stata.>
<Vuole forse dirmi che quel… quel ragazzino ha compiuto le imprese mirabolanti che gli ho visto fare solo grazie al suo addestramento? Non riesco a crederlo.>
<Eppure è così.> replicò lo scienziato <Magari ha una sorta di predisposizione naturale, ma nulla di più. Posso ripetere i test altre cento volte, può minacciarmi di spedirmi in un gulag siberiano, ma questo non muterà di una virgola la situazione.>
Karpov congedò lo scienziato e rimase da solo nel suo ufficio. Restò silenzioso per un po’, poi colpì con un pugno la scrivania e sbottò:
<Maledizione!>
Era così sicuro ed ora doveva affrontare il fallimento. Niente promozione questo era certo, forse l’avrebbero sbattuto in qualche oscura e sperduta guarnigione a fare del noioso lavoro d’ufficio. Doveva anche sbarazzarsi del prigioniero. Restituirlo agli Americani adesso era fuori questione: sarebbero nate troppe domande imbarazzanti. Peccato, però, sprecare quel superbo addestramento e quelle capacità di combattente… a meno che… un’idea attraversò la mente di Karpov. Poteva funzionare, doveva. La prima cosa da fare era una telefonata.
Base
dei Vendicatori Segreti.
Steve Rogers, Yelena, Bucky e Amadeus Cho
erano tutti al cospetto di Fury.
<Come hai detto che hai fatto ad
ottenerle, Vedova?> domandò il colonnello.
<Lukin. Ho cenato con lui e ...>
<”Cenato” dici? Solo cenato?> domandò
maliziosamente Amadeus Cho. Yelena gli tirò un pizzicotto fortissimo in un
fianco e gli diede un’occhiataccia.
<Dicevo, mi ha fornito di queste
informazioni come prova della sua buona fede e per mostrarmi che non fosse
coinvolto. Gli credo.>
<Come avete letto nel mio rapporto...>
intervenne Steve <… anche io e Buck non abbiamo trovato nulla nella sua
villa. Tuttavia, visti i suoi trascorsi Lukin mi pare troppo pulito. Anche il
modo in cui s’è procurato in così poco tempo tutte quelle informazioni su
Zakharov ... mi puzza.>
<Forse, ma non è lui il nostro obiettivo
primario al momento. Zakharov, o chiunque esso sia, ha la priorità.>
sentenziò Fury.
<Mi domando chi diavolo possa essere a
spacciarsi per lui...> chiese la Vedova Nera.
<L’Elenco è lungo. Io sospetto che si
tratti del Camaleonte. Ho già avuto a che fare con lui, ed è in grado di
ingannare chiunque.> le rispose l’ex Capitan America.
<Il ... Camaleonte?> domandò Bucky,
incuriosito.
<Dmitri
Smerdyakov, ex spia del KGB> intervenne Cho, e mentre digitava sulla
tastiera del suo i-pod, le immagini apparivano sul monitor del computer principale.
<Ha la capacità di assumere le sembianze di chiunque attraverso svariati
mezzi. Si è trasferito da anni negli Stati Uniti d'America e utilizzò le sue
abilità nei travestimenti per compiere furti e rapine o lavorando per conto di
terzi. E’ stato fermato in diverse
occasioni dall’Uomo Ragno.>
<E chi è l’”Uomo Ragno”?> domandò
ancora Bucky.
<Ah su di lui non abbiamo nulla. Ma è un
tipo davvero ganzo.>
<Si in effetti, visti anche i trascorsi, è
un’ipotesi plausibile... ma anche tralasciando lui, ci sono altre persone in
grado di fare una cosa del genere. Comunque, a questo penseremo in seguito.
Adesso dobbiamo pensare innanzi tutto a fermare il suo folle progetto.>
<Non temere Nick ... me ne occupo io, ho
già un piano. Tu ha già mille altre cose a cui pensare ...>
<Già, quei bastardi dell’Hydra sono
tornati a tormentarmi> disse passandosi la mano sul pungente mento mal
rasato <Ma per qualsiasi tipo di supporto necessitiate chiedete pure al
ragazzo> disse indicando Amadeus <Ha accesso ad ogni tecnologia
dell’armamentario S.H.I.E.L.D. e può adeguarla alle vostre esigenze.>
<Ok squadra> disse Rogers assumendo un
tono di comando <Non possiamo contare su Sharon e Jack, ma ci sono delle
vite innocenti in gioco, dunque la situazione mi obbliga a convocare anche te
in questa missione, Buck.>
<Come ci muoviamo?> rispose lui, senza
la benché minima esitazione.
Un Ospedale S.H.I.EL.D. Località segreta.
La donna bionda che
si faceva chiamare Kate Svenson si muoveva rapida e sicura per i corridoi.
Stava cominciando a chiedersi se la riunione con tutti gli altri psichiatri
sarebbe finita mai ed il tempo a sua disposizione stava per finire. Tra non
molto la sua copertura sarebbe saltata ed avrebbero scoperto che le sue
credenziali erano false … beh, non del tutto, a dire il vero: lei era davvero
una bravissima psichiatra, solo che aveva scoperto da tempo un modo più rapido
e divertente di fare quattrini. In un certo senso era un peccato che dovesse
andarsene: la storia del Soldato d’Inverno era interessante e non le sarebbe
dispiaciuto vedere come sarebbe andata a finire. Meglio non tirare troppo la
corda, però. Doc Samson la stava fissando con aria sospettosa durante la
riunione ed avrebbe potuto finire col riconoscerla nonostante il travestimento.
Meglio pensare subito agli affari. Giunta davanti ad una porta chiusa la donna
esitò un istante, poi con decisione la attraversò come se non esistesse per
trovarsi all’interno di una specie di laboratorio. Se le informazioni che aveva
avuto erano corrette era proprio lì che avrebbe trovato ciò che cercava e così
fu, infatti. La donna strinse in mano una piccola fiala e sorrise, poi il suo
corpo s’illuminò e la colonna di luce attraversò il soffitto scomparendo come
se non fosse mai esistita.
Washington.
Ambasciata Russa.
A volte basta poco
a cambiare una fisionomia: un ciuffo di capelli riportato sopra la fronte, un
paio d’occhiali con la montatura di tartaruga, un abito blu, una cravatta ed
una postura leggermente diversa. Particolari, certo, ma a volte sufficienti a
distrarre l’occhio, a non fargli cogliere somiglianze e connessioni.
Steve Rogers ne era
ben consapevole: l’arte del travestimento era una delle cose che gli avevano
insegnato nei lontani anni del suo addestramento come Capitan America e come in
molte altre discipline lui ne era diventato maestro... una volta era riuscito
persino a farla ad Amora l’Incantatrice, la dea asgardiana dell’Inganno.[9] Oggi del riservato professore di storia
dell’arte della Lee Academy non era rimasto più nulla: era bastato pettinarsi i
capelli all’indietro e ordinarli col gel, far sparire gli occhiali, indossare
uno smoking bianco e muoversi con un’andatura fiera, elegante e perfino un po’
altezzosa. La sua accompagnatrice, Yelena Belova, non poteva non compiacersi
del cambiamento. Fu grazie alle false credenziali che s’era procurata tramite i
soliti canali che riuscirono a farsi passare per il signore e la signora
Protasov e a farsi invitare al ricevimento che si teneva qui in questa
giornata. Non si teneva il conto dei numerosi ospiti internazionali che erano
stati invitati quel giorno, praticamente l’intero corpo diplomatico accreditato
a Washington ed un bel po’ di pezzi grossi del Dipartimento di Stato. Un party
era sempre un party dopotutto anche per nazioni spesso ai ferri corti tra loro.
C’era persino l’intera nazionale di pallacanestro russa, fresca vincitrice del
bronzo alle olimpiadi, che doveva disputare una tournee di lusso nella “patria
del basket”.
Il Soldato
d’Inverno invece, grazie al suo addestramento specializzato, era riuscito a
entrare di nascosto e osservava la scena lontano da occhi indiscreti;
d’altronde aveva passato quasi tutta la sua vita di adulto a penetrare senza
essere visto in ambasciate o consolati stranieri, ma era la prima volta che lo
faceva per evitare che qualcuno venisse ucciso e non per eliminare un bersaglio
o per rubare documenti riservati... e la cosa lo faceva sentire in qualche modo
bene. Il suo comandate, quello “Steve” che continuava a riferirsi a lui come
“Bucky” , era il genere di uomo che avresti seguito anche all’inferno, il tipo
a cui affideresti la tua vita e, stando ai suoi discorsi, era proprio quello
che avevano condiviso in passato.
Gli uomini di
Zakharov non tardarono a farsi vedere, presentandosi con una raffica di mitra
sul soffitto che scatenò il panico tra gli ospiti; i terroristi li obbligarono
a radunarsi nell’immenso salone puntando su di loro le armi. Steve ed Yelena
stettero alle loro richieste senza reagire o dare nell’occhio, in attesa del
momento giusto in cui entrare in azione. Quello che sembrava essere il loro
leader salì sopra il tavolo del buffet: era alto, molto grosso, aveva un fisico
da culturista, e i capelli rasati e la cicatrice sul volto gli davano un’aria
di aggressiva, tipica di un uomo pronto ad uccidere.
<Statemi tutti a
sentire! Le vostre vite appartengono ai Lupi
del Caucaso Siamo qui per far
pagare al popolo russo il sangue versato in Cecenia. Non abbiamo dimenticato
gli orrori che avete compiuto ai danni del nostro popolo. Oggi siamo qui per
regolare i conti col passato! Abbiamo piazzato degli ordini esplosivi in tutto
l’edificio. Al minimo accenno di reazione o di resistenza azionerò questo
detonatore e andremo tutti al creatore!> disse mostrando il telecomando che
impugnava nella mano sinistra. Diceva di chiamarsi Arbat e rivendicava l’onore
della Cecenia, facendo riferimento agli orrori di quella guerra, ma Steve ed
Yelena sapevano benissimo che si trattava di un bluff: quell’uomo era agli
ordini di Zakharov, o meglio, di colui che si spacciava per il generale Era arrivato il momento di passare
all’azione:
<Ora.> disse
sottovoce parlando nel suo comunicatore da polso, e pochi secondi dopo, le luci
si spensero e l’intero edificio cadde nelle tenebre.
<NON
MUOVETEVI!> gridò ancora il capo dei terroristi, sparando dei colpi in aria.
<Forse è solo un
blackout.> azzardò uno dei suoi uomini, sottovoce.
<Forse. Manda
Yuri a controllare.> ordinò lui, mentre il resto dei suoi uomini accesero
dei lightstick luminosi per poter vedere meglio. Nel frattempo Steve e Yelena
avevano approfittato del buio per dileguarsi e cambiarsi d’abito, indossando
ognuno la propria divisa da combattimento.
Nel frattempo, il
mercenario chiamato Yuri, a cui era stato ordinato di andare a verificare cosa
avesse causato il blackout, scendeva nei sotterranei a controllare il contatore
delle luci. Camminava di soppiatto, col fucile puntato e la luce della torcia
ad illuminare ogni suo passo. Quando si avvicinò all’impianto, senti la canna
di una pistola sulla nuca.
<Getta l’arma e
non muoverti.> disse una voce, in un perfetto russo. Yuri eseguì l’ordine,
lasciò a terra l’arma e alzò le mani, ma pochi secondo dopo, quando era
convinto che il suo assalitore avesse abbassato la guardia, s’avvitò su se
stesso, cercando di stendere il suo assalitore con una gomitata; questi però si
rivelò molto più rapido, forse anche perché si aspettava una mossa del genere,
e lo colpi prima ai reni, e poi alla mandibola, atterrandolo. Yuri, dolorante,
alzò la testa e guardò colui che lo aveva steso lo riconobbe a causa di alcune
descrizioni che aveva sentito.
<Tu sei ...
credevo fossi una leggenda....>
Nel salone intanto,
il cosiddetto Arbat lo chiamava via radio.
<Yuri. Yuri,
rispondi, passo.> ma non ricevette nessuna risposta.
<Ma che caz...
Sasha, Anatoly, andate a vedere.>
Approfittando della
sua distrazione e dell’oscurità, la giovane Vedova Nera e l’ex Capitan America
prendevano alle spalle gli uomini armati e li mettevano fuorigioco in modo
silenzioso.
<Pensa agli
altri. Lui è mio.> ordinò Steve sottovoce, dopo di che si lanciò all’attacco
del capo dei terroristi. Lo colpì con un calcio volante, atterrandolo e
facendogli cadere di mano sia il fucile che il detonatore. Uno dei suoi uomini
sparò in sua direzione, mancandolo, ma pochi secondi dopo la Vedova Nera si
avventò su di lui, mandandolo al tappeto con un preciso calcio alla testa.
L’altro terrorista non fece appena in tempo a puntarle contro l’arma che Yelena
lo stese con una scarica del taser contenuto nei sui bracciali.
Nel frattempo Arbat
allungò la mano verso il telecomando e minacciò di usarlo, ma Rogers fu più
rapido di lui: con la mano sinistra gli bloccò il polso, impedendogli di
premere il pulsante che avrebbe attivato la detonazione, mentre con il destro
lo colpi con un pugno fortissimo alla mascella. Tutti gli ostaggi erano a
terra, con le mani in testa, terrorizzati. Dopo una rapida quanto acuta
occhiata Steve constatò che non vi fossero feriti, dopodiché sollevò da terra
Arbat prendendolo per il bavero.
<So che lavori per
Zakharov e magari non sei neanche Ceceno. Dimmi dov’è.> gli disse, a muso
duro.
<Fottiti. Non
parlerò mai, cane americano.> gli rispose l’altro.
Alle loro spalle
arrivò Bucky, silenzioso come sempre.
<Ho trovato le bombe
e le ho disinnescate, comandante.>
Arbat cambiò espressione quando lo vide.
<Io.... ti
conosco. Ho sentito parlare di te .... il tuo aspetto, il braccio bionico...
t-tu sei... il Soldato d’Inverno.> esclamò terrorizzato. <Non… non è
possibile, tu non esisti!>
Il Soldato
d’Inverno sogghignò.
<Davvero?> si
limitò a dire <Allora di che hai
paura?
<Durante la
guerra, nel 91 ... si diceva che i Russi volevano impiegare te. Ho sentito i
racconti della tue imprese ... tu sei ... la morte.>
<Hai proprio ragione,
compagno> intervenne la Vedova Nera <E conosce molti modi per farti
sciogliere la lingua. Vogliamo Zakharov e tu ci dirai dove si trova, o ti giuro
che ti chiudo in una stanza con lui.>
Steve li osservò
attentamente. Non era abituato ad agire così, e di certo non avrebbe mai
permesso che un nemico venisse torturato, ma mentre suoi loro volti non
trapelava la minima emozione, quello di Arbat divenne una maschera di sudore.
Il bluff (o almeno, lui sperava fosse un bluff) stava funzionando.
Sede
dei Vendicatori Segreti
Il Soldato d’Inverno sedeva con il volto
chino e stringendosi le mani. Sussultò appena quando sentì una mano posarsi
sulla sua spalla destra.
<Stai bene?>gli chiese Steve Rogers
sedendosi accanto a lui.
<Si… penso di si.> rispose lui con voce
non molto convinta.
<Quel tipo ha cantato come un
usignolo.> continuò Steve <Ci ha detto tutto, compreso dove trovare
Zakharov e con lui anche Sharon e Nomad. Li libereremo finalmente. Stiamo
verificando le sue informazioni, ovviamente, ma crediamo che abbia detto la
verità. Ci ha detto anche i il suo vero nome: Mikhail Lermontov, un ex spetnaz[10]divenuto
mercenario. I ribelli ceceni non c’entravano nulla con questa faccenda
ovviamente. Siamo stati fortunati ad imbatterci in qualcuno che aveva sentito
parlare di te ed era rimasto spaventato da quello che gli avevano
raccontato.>
<Bella fama, quella di una macchina morte.
Solo l’idea che potessi torturarlo è bastata a convincerlo a parlare.> Alzò
gli occhi verso Steve e disse, con un
accento quasi disperato <Non l’avrei torturato Steve.> disse <So che
in passato l’avrei fatto… l’ho fatto… senza esitare… ma adesso… non chiedermi
perché ma so che è sbagliato.>
<È la tua vera natura, Bucky… alla fine
sta venendo fuori, come sapevo che sarebbe successo.>
<E chi è Bucky? Chi sono io? Un assassino
spietato o che altro? Come posso andare avanti con tutto quel l sangue
innocente sulle mie mani? Come potrò mai fare ammenda?>
<Il fatto che tu te lo chieda dimostra che
tu non sei più o stesso uomo, la spietata macchina di morte in cui ti avevano
mutato. Non eri responsabile più di quanto una pistola lo sia quando qualcuno
preme il grilletto. Chi ti ha fatto questo.. loro sono i veri
responsabili. Ora per fortuna il vero
Bucky Barnes sta tornando.>
<Il vero Bucky Barnes… è ancora un mezzo
estraneo per me e chissà se riuscirò mai a ritrovarlo.>
<Devi avere fiducia Bucky… Io ce l’ho… io
ho fiducia in te amico.>
Il soldato d’Inverno guardò ancora una volta
quell’uomo dal sorriso aperto e franco e lesse nei suoi occhi l’assoluta fede
in quello che aveva appena detto.
<Chi sei davvero tu, Steve Rogers?>
Steve fece una breve risata e rispose:
<Te l’ho detto: un amico… uno che non ti
abbandonerà… mai più.>
La seduta psichiatrica era stata spossante
come sempre e lui sentiva il bisogno di rilassarsi in qualche modo. Per qualche
motivo non gli andava di usare la palestra, forse avrebbe trovato un altro modo
per rilassarsi. Da quanto tempo non vedeva un buon film? Neanche lo ricordava.
Raggiunse la saletta delle riunioni fissò lo schermo. Serviva per le comunicazioni, lo sapeva, ma
poteva avere anche altri usi.
Fece una breve ricerca e poi trovò qualcosa
che era di suo gradimento. Spense le luci
e si sistemò su una poltroncina. Davanti a lui ecco scorrere delle
immagini in bianco e nero e con esse la voce fuori campo di uno speaker:
<<… immagini del supersoldato
americano, Capitan America ed il suo fidato compagno Bucky mettono ancora una
volta in fuga i crucchi. Nulla ostacola la marcia verso Parigi…>>
L’uomo con la maschera con le alucce aveva un
sorriso sicuro, un sorriso che lui conosceva.
Il ragazzo ammicca verso la macchina da
presa. È spavaldo, spensierato, i giorni bui sono ancora lontani. Iniziava a riconoscere
anche lui: Bucky Barnes stava lentamente tornando a casa.
FINE
NOTE
DEGLI AUTORI
Non c’è molto da dire
su quest’episodio, se non che avete avuto la prova che Aleksandr Lukin non ha
bisogno di indossare una maschera da teschio per procurare problemi a Steve ed
al suo gruppo. Stavolta si è trovato
dalla loro parte, ma la prossima? Lo scoprirete prima di quanto vi aspettiate.
Nel prossimo
episodio… qual è il segreto dietro la “resurrezione” di Zakharov e potranno i
Vendicatori Segreti fermare i suoi folli piani? Per saperlo non avete che un
modo. Vi aspettiamo.
Carlo
& Carmelo
[1] In Capitan America MIT #42.
[2] Natalia Alianovna Romanova, altrimenti nota come Natasha Romanoff, ovvero la prima Vedova Nera.
[3] Il Servizio Informazioni delle Forze Armate Russe.
[4] Vedi Steve Rogers: Supersoldier MIT #1/3.
[5] Così è chiamata nella sua lingua madre la mafia russa.
[6] Vorremmo davvero dirvi di più, ma non possiamo: Zakharov fa troppa paura anche a noi. -_^
[7] Molto tempo fa in Captain America Vol. 1° #148 (Prima edizione italiana Capitan America, Corno, #60).
[8] In Occhio di falco MIT #8
[9] In Avengers Vol. 1° # 22, novembre 1965.
[10] Le forze speciali russe